IL LAVORO A VIESTE "La Fatic"

"For", l'urt", "u mer" sono i luoghi di lavoro che specificano anche i mestieri: "u fures", l'urtlen", "i marner". Ci sono anche i mestieri di paese: il falegname, il fabbro, lo spazzino, gli impiegati, i bottegai... Molti - chi se lo poteva permettere - hanno lavorato senza faticare. Altri - i più - hanno ancora la schiena ormai curva dal lavoro e siedono, orfani del loro passato, lì ancora per un po' in villa a raccontarsi. A Vieste il lavoro si chiama fatica e il verbo che lo coniuga è faticare: non esiste il lavoro e il lavorare. È la storia di lavoratori senza gloria che hanno ripetuto il lavoro dei padri, si sono assoggettati con dignità ai padroni e non si sono mai arricchiti con il proprio lavoro. Tra i mestieri (anche qui non esiste una specifica ricerca) siamo riusciti a documentare alcuni, ma manca quello del fabbro, del riparatore di botti, del falegname, del "maestro" che aggiustava i carri agricoli... La poesia di Delli Santi ce ne fa memoria:


Non esist chjù nu trabacculand, d la mar'narij onor e vanti, né n'acquajul né nu bagnules, che p venn g'ravn u paes, né nu molafurc né nu curdler, né nu vutter e né nu mul'ner, né nu sena piatt né nu rmit, che, p t'rà nand la vit, p la casc'tedd pu traturìcchj tuzzlev p'rtun e suttanicchj. Cuss -che timb!- s g'rev mangev, non mangev es non g'rev. E pu vstit e men chjn d'und di sul'taridd facev i cund. (Gaetano Delli Santi, Mstir fnut).

Abbiamo invece qualche immagine di lavoratori ma in gruppo, non quando lavorano: si pensava che questo lavoro quotidiano non meritasse di essere fotografato! Ricordo ancora mio zio che si rendeva schiavo a farsi fotografare quando potava gli ulivi con quella sua personale arte che sapeva fare dell'ulivo una cattedrale al cielo in aperta campagna, sotto il sole. Il lavoro non risparmia le donne e i ragazzi, specialmente durante la raccolta delle olive, la vendemmia o la pesca. Questi diversi lavori hanno inciso anche sul dialetto determinando delle variazioni fonetiche e lessicali che permettevano di identificare subito un campagnolo ("nu fures") da un pescatore ("nu marner"). Ora, molti ragazzi non parlano bene il dialetto... Ma molte parole sono "alla gioij (= al cimitero) sepolte insieme a chi le ha parlate: sono morte con i loro mestieri e i loro sentimenti. E forse noi oggi con questo modo di vivere non ne siamo degni di parlarlo:

Quann c badev alla sustanz, accom puter'c anghj' la panz, la dumen'ch quand'er saprit u dit du lard pi mizz zit, u piatt chpput senza zirl e senza cugghj p dg'rirl. (Gaetano Delli Santi, Quann alla tavl c mangev).

Vurrij sapè addon stann i pisc che vdev tann tann; addon stann quidd marner pi mastell, i sessl, i t'ler; che fin hann fatt i lanz a vel d sop u marciappid du sp'tel, i bell paracozz di Visc'gghjs, i paranz a vel di Mulf'ttis, la boj d fir d mmizz u scel ind la rena fin sotto i spasel, i vicchj marner p la lunghett, i uagnun che "sop u lazzarett" currevn a calà i tagghjol appen assevn da la scol; i lecc che zumbavn pi tal'fin da "Sott la rip" alla "Banghin" (Gaetano Delli Santi, Vurrij sapè).